Lettura per la Pasqua
Sezione: Tema del mese: la Pasqua
Articolo di: Attilio Baio

Anche se la vita quotidiana si muove, per la maggior parte di noi, su un sentiero suo proprio, che raramente incrocia quello delle “cose” religiose, a nessuno mai sfugge che è Pasqua. In tempi di covid questa banale osservazione potrebbe magari aiutare qualcuno a fermarsi, memore di quale Pasqua abbiamo vissuto un anno fa, per provare a fare qualche riflessione su quella che sta per venire.
Per noi cristiani Pasqua è un avvenimento che è accaduto una volta e, da quella volta, accade sempre. Non per merito nostro, eppure mai senza di noi. Nessuno di noi stava sotto quella croce, nessuno neppure tra quelli che ne avrebbero fatto di lì a poco la ragione della propria vita. Peraltro tutti i racconti della resurrezione, così discreti, mettono fuori dal sepolcro una donna, che si trovava lì semplicemente perché trascinata dal dolore per la perdita tragica di una persona amata. Tutto dunque dipende da quella donna, la cui testimonianza all’epoca valeva la metà di quella di un uomo, tanto per gradire. Già questo meriterebbe una sosta, perché c’è una vena di debolezza in ogni discorso cristiano serio, qualcosa con cui fatichiamo a far pace, perché ci piacerebbe troppo che tutto s’imponesse ai nostri occhi (e alla nostra fede) senza che dobbiamo
intraprendere l’avventura di credere.
Ogni volta che arriva la festa di Pasqua abbiamo alle spalle un certo cammino, che inizia nel deserto e si snoda attraverso il racconto di alcuni incontri di Gesù: con una donna presso il pozzo di Sicar, con alcuni uomini di religione nel Tempio, con l’uomo nato cieco (e altri uomini di religione), con le sorelle di Lazzaro che piangono la morte del fratello. Debolezza e fatica di credere, sempre e dentro ogni vissuto umano. E lì sempre intrecciate, mai risolte l’una
nell’altra, mai banalizzate. Gesù affronta la debolezza, la sua debolezza anzitutto: ma come, questo non ci vedeva, ora ci vede e voi fate le pulci perché secondo voi era nato “tutto nel peccato”? Ma anche la debolezza, per dirne una, della donna del pozzo, che alla fine esclama “mi ha detto tutto quello che ho fatto!” come fosse una liberazione. Incredibile, Gesù non solo non la fa sentire a disagio, ma la rende quasi orgogliosa di non dover più fingere o tentare di nascondere quello che tutti sapevano, ma di cui nessuno osava parlare nelle pubbliche piazze (perché non sta bene, non si fa).
In fondo il Gesù dei Vangeli non fa che questo: aprire o riaprire strade, sentieri, porte; e quando qualcuno fa lo stesso, anche magari scoperchiando un tetto per calare una barella saltando la fila, la cosa lo entusiasma al punto da spalancare a quell’uomo orizzonti impensabili (“ti sono perdonati i peccati”) e riabilitarlo per quelli più alla portata (prendi la barella e portatela via, sulle tue gambe). Se leggiamo così il Discorso della montagna, quella meraviglia che si ascolta nelle messe feriali delle prime settimane di Quaresima e che ci lascia estasiati e devastati, tanto è il fascino e insieme la distanza che sentiamo tra noi e quelle parole, forse cogliamo che il cuore di Gesù trema e arde per la possibilità che anche noi abbiamo, concretamente e ogni singolo giorno, di chiudere o aprire, illuminare o rabbuiare, dar vita o ferire a morte (anche con una sola parola). E continua a dirci: io apro, illumino, do vita perché Dio è così e fa così. E tu?
Solo uno che conosce la debolezza fino in fondo può evitare di trasformarla in un alibi; solo chi si sa conosciuto e amato fino alla radice della sua umanità può sentirsi dire “tu compirai cose più grandi di queste” senza scappare o mettersi a ridere. Così torniamo a quella donna, che “di mattino, quando ancora era buio”, era là nel giardino – annota il solo Giovanni – e piangeva. Il nostro cammino inizia nel deserto e termina nel giardino. O meglio, ricomincia dal giardino: non puoi trattenermi, dice il Risorto, “ma va’ dai mei fratelli”.
Qui però è meglio fermarsi. In questo giardino noi portiamo i nostri deserti, quelli aridi del nostro piccolo cuore e quelli sterminati che non conosciamo – o forse sì, ma spesso guardiamo da un’altra parte. Siamo qui ed è ancora buio. In fondo non ci sorprende più nemmeno celebrare l’abisso del
Venerdì santo e il silenzio del Sabato santo.
Ti chiediamo però una grazia, Signore, una sola, di poter gridare sconvolti “hanno portato via il mio Signore!”, di sentire che senza di te questa nostra vita, nella sua qualità più umana, precipita. E già che ci siamo, di trovare un giardiniere in quel buio, uno al quale rivolgerci importunandolo anche con poca educazione. Se sentiremo da lui il nostro nome, oggi come allora, avrai aperto altre nuove strade, che percorrerai con una gioia che non possiamo nemmeno immaginare. Non per merito nostro, eppure mai senza di noi!

 

Foto di klimkin da Pixabay

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